La pittura e l’oggetto cinetico. Vibrazioni di luce nell’arte di Paolo Scirpa

Di Claudio Cerritelli

01 Dicembre 2003

Con Zita Vismara e Claudio Cerritelli. Vismara Arte, Milano, 1981. Mostra personale

A metà degli anni Sessanta Paolo Scirpa è immerso nella pittura come risonanza della realtà industriale, decostruzione dell’oggetto meccanico, nello stesso tempo si rivolge alla civiltà dei rifiuti, crea composizioni consumistiche con involucri di cartone di vari prodotti.
Sono la pittura e la grafica i linguaggi che gli servono per superare la dimensione della natura e per analizzare le strutture dinamiche della dimensione della visione, non a caso le sue prime significative intuizioni prospettiche guardano alle forme dinamiche del futurismo.
In queste prove formative del suo percorso l’artista è impegnato a stratificare frammenti, a fissare elementi simultanei che attraversano lo spazio, a selezionare il mondo come un campo di pulsazioni cromatiche.
Un ciclo di “collage+pittura” realizzato tra il 1966 e il 1967 è dedicato al “sole”, figura geometrica entro cui si condensano visioni in divenire, sovrapposizioni di colori che hanno il miraggio della trasparenza, tensioni spaziali che si dilatano in relazioni sempre diverse.
La pittura è sentita come strumento di conoscenza di un territorio ottico in cui si accumulano informazioni ed emozioni che Scirpa filtra razionalmente alla ricerca di processi percettivi, iniziando un viaggio programmato all’interno di molteplici energie luminose che si sprigionano dalla figura circolare del sole, icona persistente e simbolo dell’universo.
L’universo non è un’immagine impalpabile, è sogno concreto, è habitat costruito a misura d’uomo, è dialettica spaziale tra pittura e ambiente, luogo di trasformazione di dati razionali in impulsi immaginativi.
Nelle operazioni degli anni Settanta l’artista prende atto fino in fondo del ruolo emergente della tecnologia, non rinuncia completamente all’atto pittorico ma ritiene necessaria la sua proiezione oltre il perimetro dell’opera. Sostituisce la tela con la superficie d’acciaio inox, adotta moduli rigorosi di tipo costruttivo che danno ordine all’immagine, ne affidano il destino a sovrapposizione di elementi in contrasto dinamico. Parallelamente, Scirpa torna a lavorare intorno alle simulazioni prospettiche e alle strutture modulari di involucri di cartone, esercizi che lo proiettano verso forme virtuali elaborate al computer, immagini che hanno come riferimento l’idea di megalopoli consumistica.
Nell’affrontare la suggestione di queste esperienze l’interesse dell’artista conferma le ragioni di fondo: vale a dire la necessità di giocare sull’opposto versante della pittura e dell’oggetto, oscillando dalla superficie all’ambiente, dal colore dipinto all’involucro colorato, dalla luce del pigmento a quella del neon, dalla vibrazione statica a quella dotata di intermittenze reali.
Non che la pittura abbia  mai perso la sua funzione nell’immaginario di Scirpa , il fatto è che – durante gli anni Ottanta e Novanta – l’artista è totalmente affascinato dai percorsi luminosi dei “ludoscopi” costruiti con neon (bianchi o colorati) e con specchi che prolungano l’effetto dinamico.
L’entusiasmo verso questa sperimentazione di luci cinetiche è tale che le combinazioni si moltiplicano coinvolgendo ogni tipo di ambiente, attraverso percorsi prospettici di luce tecnologica che modificano lo spazio reale con l’illusione di un altro spazio, che cresce virtualmente su se stesso. La seduzione del gioco ottico diventa nelle mani dell’artista un linguaggio provocatorio e persuasivo, uno strumento di fascinazione che incanta e, nel contempo, inganna le attese percettive dello spettatore, rendendolo incapace di resistere alle ripetute vibrazioni che creano il senso dell’infinito, il vuoto simulato in cui l’occhio cade, inevitabilmente.
Il meccanismo di smarrimento è dunque avviato: l’evocazione luminosa del colore dipinto cede il passo alla luce del neon, materiale di rara efficacia che l’artista adotta per catturare con le sue linee avvolgenti il corpo del vuoto e le dilatazioni che si producono attraverso gli specchi.
Con questo linguaggio tecnologico Scirpa costruisce lo spazio plastico come luogo generatore di energie luminose che determinano effetti basati sulla sorpresa immaginativa e sullo straniamento fisico.
Non a caso, nel ciclo dei “ludoscopi cinetici” (l’operazione indubbiamente più “originale” della sua ricerca) lo sguardo viene attirato in un vortice di inquietudine ma anche di godimento visivo: uno stato d’animo dove l’effetto “a spirale” permette di confrontare la soglia del reale e quella del fittizio, il processo conoscitivo delle opposte sensazioni.
L’artista è un “percettologo” libero di passare dai procedimenti tecnici a quelli fantastici, non escludendo mai l’aspetto ironico che i fenomeni ottici sollecitano, in quanto carichi di conseguenze visive che talvolta sfiorano la condizione dell’ipnosi sensoriale.
Tuttavia, l’illusione ottica non è mai fine a se stessa, comporta invece una coscienza critica dei meccanismi percettivi che stimolano l’attenzione di chi guarda verso le ignote profondità dello spazio, verso le estreme regioni dello sguardo.
In questo senso, Scirpa assottiglia il limite tra il reale e l’illusorio, trasforma  il meccanismo della visione in una voragine costruita attraverso l’avvolgimento progressivo delle linee luminose che spingono l’osservatore verso la luce e il buio come momenti complementari, non separabili, comunicanti.
Questa compresenza di valori visivi legati alla dialettica positivo – negativo si rafforza nel momento in cui l’artista immagina di intervenire con l’uso del fotomontaggio sulle immagini urbane, modificandole attraverso “un sistema concentrico di perimetri dallo spessore degradante verso il centro e dagli angoli smussati”, per usare la terminologia di Alberto Veca applicata specificamente alle figure del quadrato e del triangolo.
Si tratta di progetti d’intervento su luoghi mitici che appartengono alle esperienze dell’artista, Parigi o Milano, Roma o Venezia, il palazzo di Brera o i siti archeologici della Sicilia, l’identità delle grandi città e dei paesaggi reali e immaginari.
Il fascino elementare di questi interventi si basa sull’effetto di straniamento di strutture ambientali antiche e moderne, immagini concepite come incursioni fantastiche di strutture espansive che modificano – anche solo per gioco – l’identità delle convenzioni visive.
“Calligrafo della luce elettrica”  – così lo ha definito Pierre Restany. Scirpa non ha tuttavia mai rinunciato alla pittura, l’ha considerata sempre un pensiero parallelo alle molteplici esperienze che lo hanno portato a sperimentare intersecazioni, traslazioni ed espansioni capaci di stimolare i meccanismi della mente. La pittura non si è mai sottratta al piacere di esprimere le infinite relazioni tra scienza e tecnologia, all’impulso di stabilire sempre nuove idee da realizzare, alla certezza che ciò che conta è il metodo che si persegue, più che il singolo risultato.
Eppure, nonostante questo slancio totale verso le voragini dello sguardo e gli stravolgimenti della percezione, la necessità di esprimersi con gli strumenti tradizionali della pittura ha resistito nel tempo, come un respiro naturale che segue da vicino le tensioni della sperimentazione tecnologica.
E per un semplice motivo: in quanto la pittura è stata il luogo originario della genesi immaginativa di Scirpa e, dunque, ad essa si riconducono spontaneamente le molteplici direzioni del suo cammino, anche quelle che apparentemente si allontanano dalle sue tracce.
Questa convinzione consente di non considerare marginale questo recente gruppo di tele ma di riconoscervi un preciso legame con la varietà dei temi e delle verifiche che hanno nutrito da oltre quarant’anni il gioco polisensoriale della luce, attraverso ogni materia idonea ad esprimerlo.
In questa mostra, appunto, le superfici dipinte ad olio, o ad acrilico con interventi di pastello, dialogano con alcune sculture metalliche, strutture d’acciaio in cui le vibrazioni luminose sono animate da un moto perpetuo che corrisponde alle dinamiche ambientali e ai movimenti dello spettatore. Le tele evocano le sovrapposizioni dei neon in movimento. I colori si dilatano come bagliori luminescenti. Le linee – luce si intersecano abolendo il loro reciproco confine. I piani acquistano peso in relazione alla capacità dell’occhio di andare oltre l’intreccio stabilito. Le strutture si moltiplicano all’infinito con la sensazione di una simulazione spaziale della profondità. Partendo da “composizioni modulari cromo-percettive” Scirpa costruisce sulla superficie inquiete geometrie visuali, turbamenti spaziali che vanno cercati nel rapporto tra pieno e vuoto, tra luce e ombra, tra ritmi percettivi ambivalenti, misurati sui percorsi della ragione e dell’emozione.
Per quanto possa essere progettata e disegnata, la pittura non si adegua alle regole che ne presiedono l’idea preliminare, essa insegue prospettive sensoriali instabili che lo spettatore deve saper usare, memorizzare, manipolare per vivere in modo sempre diverso il rapporto con il mondo.
Quello che Scirpa indica è un modello di comportamento qualificante, insostituibile per una dimensione della vita sorretta  dalla funzione critica dell’arte. È il comportamento umano ed etico di chi rifiuta  l’opera come appagamento delle conquiste acquisite e la considera  – invece – come base per progetti futuri. È per questo che – nell’attuale lavoro di Scirpa – mente e corpo, ragione e immaginazione, memoria e progetto garantiscono una costante mobilità creativa in cui la pittura e l’oggetto cinetico si sviluppano in modo aperto e avvolgente, e le strutture del colore non sono apparenze fluttuanti della luce ma la loro più profonda rivelazione. Milano, dicembre 2003