Paolo Scirpa e il suo tempo…di Sicilia

Di Ornella Fazzina

01 Ottobre 2006

In Europa e in Italia alla fine degli anni cinquanta una nuova situazione di ricerche in ambito artistico si contrappone al movimento informale allora dominante ed è proprio a partire da quel periodo che l’Italia conquista una posizione centrale sulla scena internazionale. A Milano, alla fine del 1959, nasce la tendenza verso un tipo di ricerca oggettiva che mira ad operazioni dove il movimento reale o virtuale provocato da effetti percettivi assume fondamentale importanza. I materiali utilizzati per la realizzazione di queste opere sono di natura industriale, determinati anche dalla presenza di fonti luminose e movimenti meccanici.
Le ricerche visuali programmate si collocano, quindi, tra esiti da astrazione geometrica, concretista, meccanismi azionati elettricamente e immagini che impongono una interazione fra loro e chi guarda, il cui scopo è quello di servirsi della tecnologia per dimostrare la complessità e l’imprevedibilità della percezione visiva.
Le ricerche degli anni sessanta condotte sullo spazio riflettono una tensione ideologica e una dedizione alla ricerca protesa ad un rinnovamento disciplinare che vuole riflettere un più ampio rinnovamento culturale. Si tratta di un periodo in cui l’ideologia gioca un ruolo determinante e i diversi linguaggi visivi indicano la pluridirezionalità di ricerca; periodo che paragonato ad oggi mette in luce l’attuale povertà di forti idee e di rigore concettuale che non deve, comunque, essere letta quale vincolo alla libertà ritrovata di un certo eclettismo sperimentale ma piuttosto indirizzata alla  rivisitazione del tutto in termini critici.
Intorno agli anni sessanta Paolo Scirpa realizza delle incisioni, L’industria del '65 e del '66, dove la tensione si evince dai segni nervosi e attivi, fatti di intrecci e sovrastrutture a formare quasi delle planimetrie dentro le quali la realtà sembra scorrere; un movimento interno di linee-forza simmetriche che rimandano al Futurismo e che farà dire all’artista qualche anno dopo che scopo del suo lavoro è “tentare di esprimere…il fenomeno tecnologico che coinvolge l’intera società” sottolineando un preciso rapporto socio-ambientale trasferito nelle immagini con riferimenti e con una strutturazione di tipo urbanistico, architettonico e geometrico. Questo modo razionale di procedere riflette l’armonia con il moderno mondo tecnologico e industriale che già a metà degli anni cinquanta stava affiorando a Siracusa con il polo petrolchimico, il quale se in un primo momento è stato accolto e guardato con diffidenza, subito dopo ha significato la coronazione di un sogno in nome del progresso e inteso come la fine della disoccupazione che per il sud ha sempre rappresentato una delle maggiori piaghe che hanno afflitto questa parte del Paese. Ma l’entusiasmo è durato fino agli anni settanta, momento in cui viene meno questa positiva prospettiva a causa del disimpegno dell’industria.
Sul tema dell’industria Scirpa si è molto adoperato realizzando anche delle opere a mosaico, una ad Ostuni con interventi dal sapore pop, l’altra nel ‘63/65 a Grottaferrata di natura religiosa dove i soggetti da apostoli assumono sembianze di pescatori con la tipica coppola siciliana mentre sulla destra del quadro si staglia un agglomerato industriale e delle barche, sottolineando il binomio operaio-pescatore e quindi il mutamento sociale che stava avvenendo; dunque, un riferimento esplicito alla Sicilia in bilico fra tradizione e innovazione.
Nel ’67 l’artista indaga sulla tematica dei “Soli” con tecniche che vanno dalla litografia al collage e tempera o collage e olio, e accostandosi a un linguaggio essenziale abbandona forme che conservano una memoria di irrazionalità e dà alla sua ricerca un taglio progettuale che gli suggerisce l’uso del disegno architettonico e urbanistico. Tale percorso lo porterà successivamente a concepire gli “Habitat” in olio su tela e nitro su acciaio inox. L’utilizzo che egli fa dei vari generi espressivi come anche della pittura, che costituisce il leit motiv del suo iter artistico, lo condurrà a intendere questa come riflesso di una realtà industriale e superamento della dimensione della natura, analizzando le strutture dinamiche della visione ricondotte a un campo di pulsazioni e vibrazioni cromatiche e luminose.
Il mutuare forme d’espressione dal contesto circostante non è però solo un modo di osservare e di adeguarsi all’avanzare tecnologico che quasi invade e sommerge la nostra quotidianità; è anche e soprattutto un modo per riflettere criticamente sull’esistente e Scirpa lo fa attraverso anche i suoi tubi al neon che, nel dare valenza simbolica alla confusione della nostra esistenza, aspirano a raggiungere una nuova possibilità di rinnovare e di verificare lo spazio vitale di nostra appartenenza. Il suo linguaggio richiama i valori formali del costruttivismo, e in questo continuo rapporto tra macchina e natura, sentimento e tecnologia Scirpa sembra ricordarci di fuggire il pericolo di una meccanizzazione dell’uomo tramite nuove entità culturali che stimolano e aprono ad una sensibilità percettiva che ci fa acquisire consapevolezza ponendoci davanti dati oggettivi che sollecitano il nostro essere soggettivo. Quanto detto fa assumere al suo lavoro, fatto di rigore sperimentativo e freddezza esecutiva, superfici astratte e bidimensionali prima e tridimensionali dopo, un carattere poetico e spirituale che fa fronte alla pericolosità della macchina, quale moto accelerato di un divenire sempre più minaccioso dentro al quale ci si può perdere. Quindi Scirpa nel proporre immagini evocative di una mitologia industrializzata e consumistica, interpreta sì lo spirito del suo tempo ma con accenti ora ludici, ora più graffianti, e nelle sue indagini geometriche, attente al numero e alla misurazione, le forme di matrice pitagorica sembrano richiamare geometrie architettoniche di ascendenza classico-greca, che se per un verso lo pongono nell’ambito dell’arte optical o cinetica, dall’altro sono il risultato delle sue origini le quali hanno sempre avuto una forte influenza sui lavori, memori di un antico e glorioso nonché imponente passato. Egli stesso afferma di aver vissuto una “condizione socio-culturale in uno spirito di ricerca con forti legami alle radici della mia terra e alle grandi tradizioni dei miei antenati. Ciò ha suscitato in me una grande forza interiore, una spinta a conoscere e vivere la contemporaneità delle avanguardie, a battermi di persona nella crescita di una cultura allargata, sempre più europea ed universale. Anche se oggi i grandi mezzi di comunicazione facilitano tutto questo, in quegli anni giovanili per me fu una scelta coraggiosa di amore e di passione e, paradossalmente, provocò un maggiore attaccamento alle mie origini. Erano tempi particolari, tempi di radicali trasformazioni, di sviluppo industriale tecnologico”.
In questa sua intensa e toccante riflessione del 2004 affiora tutto l’ardore e il coraggio di aver fatto scelte non facili, in un momento di passaggio drastico che ha inciso profondamente sugli animi. Emblematiche a questo punto sono le parole scritte nel 1967 di Antonino Uccello nel constatare come l’artista abbia avuto in sorte la vicenda della sua città combattuta tra rivolgimenti e contraddizioni, e nel soffermarsi a descrivere il cambiamento tecnico-contenutistico avvenuto in Scirpa, cioè dell’industria che prende il sopravvento sulla vegetazione, Uccello continua dicendo che “ l’agile segno delle “pale” dei fichidindia, così arioso nel suo nitore naturalistico, cede via via il passo a un tratto più secco, di nervoso risentimento, la composizione delle sue lastre incise s’infittisce nel disegno delle “cattedrali” d’acciaio sulla solitudine della campagna, o di certe assurde topografie di città morte: un caos edilizio – proprio sul corpo della Magna Grecia – in cui tuttavia s’inseriscono, forse con valore emblematico, precise celle alveari, quasi un messaggio per un ritorno al razionale, all’uomo…”
Oltre alle litografie realizzate, compresa Piazza S.Lucia del ‘62/63 ed altri lavori, sono molti i progetti di intervento pensati per diverse città siciliane così come per Siracusa e per i luoghi più rappresentativi, quali La cripta del Santuario Madonna delle lacrime nell’80, La grotta dei cordari nell’82, Lo scoglio dei due fratelli, il Teatro greco e il Castello Eurialo nell’83, l’Anfiteatro romano nell’85, l’interno della Cattedrale nell’86, una scenografia per “Le Fenicie” di Euripide al Teatro greco, il cortile interno di Palazzo Beneventano del Bosco nell’87, il Colombario greco-romano inclusa la cosiddetta Tomba di Archimede nell’88, il sasso lavico a Buccheri (Sr) e il Tempio di Minerva nel ’97, la Fontana Aretusa nel ’98. Ed ancora Luce stellare (scultura dedicata a S. Lucia) dell’87-’04 ed altri progetti di installazione di un’opera archetipo del Teatro greco del 2004 e sempre dello stesso anno Specchi ustori (scultura dedicata ad Archimede). Infine un’altra scultura da realizzare in marmo bianco sempre ispirata al Teatro greco del 2006.
I progetti di intervento si fondano su immagini plastico-spaziali a profondità fittizie definiti “ludoscopi” con schemi orientati verso le problematiche oggettuali-cinetiche, nell’intenzione di riproporre un nuovo umanesimo supportato da una cultura tecnologica, mentre le sculture in acciaio inox specchiante sono pensate per evocare personaggi o fatti storici e sono sempre legate ad esperienze ed ai valori del costruttivismo e del neoplasticismo fino alle più recenti opere tecnologiche. Entrambe le ideazioni sono la testimonianza di una continuità col rigore geometrico strutturale che cela l’ordine delle cose; un pensiero di appartenenza a una cultura greca presa come esempio più alto della ragione e della poesia.
Dagli anni settanta la sua tendenza a passare da una scala piccola ad una urbana, dove il procedimento operativo risulta essere lo stesso ma le intenzioni diverse, gli permette di andare oltre l’effetto illusionistico e di entrare in questa dimensione illusoria che schiude altre illusioni spaziali, e per mezzo di uno slittamento simbolico fa immaginare altre profondità visive ed esistenziali. Con l’ausilio della fotografia ha quindi creato un effetto di straniamento offrendo una abituale veduta di città sotto una diversa luce e angolazione, cioè chiudendo luoghi dell’immaginario collettivo in configurazioni geometriche che a volte aprono prospettive insondabili solo in punti determinati, depistando l’osservatore che deve affrancarsi da convenzioni visive poiché il meccanismo in atto impone un gioco di contrapposizione tra forme quadrate e circolari.
Un esperimento progettuale effettuato su un altro sito archeologico della Sicilia, la necropoli protostorica di Pantalica (Siracusa), pone i ludoscopi in rapporto tra loro, suggerendo un dialogo con l’ambiente, mentre la moltiplicazione di vedute, grazie a un processo armonioso e osmotico di adattamento al luogo, fa percepire come concreta e reale l’azione nello spazio, sì da rendere ancora più perturbante il senso d’infinito. Da qui l’ambiguità, la doppia valenza del lavoro di Scirpa che lungi dall’essere rassicurante per l’uso che fa di strutture matematico-geometriche, ci introduce in una dimensione imperscrutabile e di alto spessore intellettuale, facendoci constatare come la luce porta inesorabilmente al buio spostando la nostra riflessione su un campo metafisico e trascendentale. Capace di stimolare ulteriori meccanismi mentali Scirpa crea turbamenti ed inquietudini da ricercare nel connubio ambivalente tra pieno e vuoto, tra luce e ombra, tra ragione ed emozione, superando le regole precostituite che introducono ad instabili e multidirezionali prospettive sensoriali.
E per concludere questa parentesi, mai chiusa vista la prolifica attività, riguardante l’omaggio reso alla sua città natia, è doveroso ricordare come l’artista interrogandosi sulla natura della propria identità culturale abbia trovato risposta nello spazio segnico dell’Annunciazione di Antonello da Messina di Palazzo Bellomo, un’opera che si identifica con il mistero, tema tanto affascinante per Scirpa che, in questo caso, lo affronta mettendo in stridente rapporto l’antico col presente. La sgranatura dell’immagine pittorica ripresa in bianco/nero si è trasformata in un mosaico, dando dimostrazione che la modernità non è avvezza solo a processi destrutturanti, piuttosto ad amplificare ed arricchire il senso di un’immagine già in sé portatrice di alti significati. Questa rivisitazione dell’arte del passato usando strumenti del presente, senza sminuirne la straordinaria forza espressiva, diventa un valore aggiunto di una interpretazione più prosaica e ludica che rilancia un dipinto famoso sotto una diversa veste visiva ed estetica, dando il proprio contributo ad una grammatica che nel recuperare la tradizione, nel contempo manipolandola e smontandola, ne reinventa un nuovo codice critico.
Siracusa, ottobre 2006