Con Rossana Bossaglia, Arte Struktura, Milano, 1994
Quando un artista ha una fisionomia forte e caratteristica, ben riconoscibile nelle sviluppo della sua opera nel tempo, è specialmente interessante metterlo a confronto ogni volta con il tipo di ricerca verso cui la situazione storica lo ha indirizzato, con i compagni di strada che agivano dentro la medesima condizione sperimentale: proprio perché la dialettica fra il suo discorso e “lo spirito del tempo” è molto rivelatrice, ci aiuta a cogliere il punto focale dell’intera operazione, la sintesi che l’artista stesso persegue.
Scirpa è, per esprimerci, un artista astratto ( le convenzioni aiutano ); se si vuole, di lata radice kandinskjana, nel senso diretto che, soprattutto all’origine, le sue sperimentazioni si basavano sul rapporto dei colori e nel senso ampio che alla base e alla conclusione – provvisoria, s’intende: all’oggi di tutto il suo lavoro riconosciamo una volontà simbolica , un’inclinazione esoterica, l’indicazione della chiave misteriosa e sublime del conoscere. Ma là dove le suggestioni magiche portavano verso l’improvvisata indeterminatezza degli effetti, Scirpa si è sempre ritirato di colpo, puntando sull’analisi geometrica delle forme e sulle composizioni d’insieme di effetto geometrico immediato, virando, se vogliamo restare nei termini dei grandi filoni simbolici, verso un pitagorismo perenne; né lo si dice per caso, giacché fra le sue ultime opere ricorre spesso l’immagine di una geometria architettonica, di ascendenza classico-greca. E certo, ancora, quest’artisticità è legata al numero, alla misurazione ( degli spazi o della bellezza, di ciò che possediamo o di ciò cui aspiriamo, del noto o dell’ignoto) : con tale spirito, mi pare, Scirpa si è situato in una posizione speciale, rigorosa, nell’ambito dell’arte optical e cinetica, assai poco disposto e disponibile a un’utilizzazione ludica degli strumenti della sua ricerca, insieme scientifica e fantastica; e tutto inteso a identificare quel punto di ritmo dove disegn e colore – secondo le antiche partizioni accademiche – si identificano, costruendo un ordine di ideale verità.
Mi pare sia questa la chiave di letture giusta anche per la produzione di Scirpa che, tra gli anni Sessanta e Settanta, si è interessata all’universo pop – artistico, al problema del consumismo, dell’arte fatta di e per i mass – media, e così via: l’oggetto banale, assunto nella sua iterazione asettica che gli toglieva ogni decifrabilità come individuo, non mai non più “unicum”, si faceva ingranaggio e tassello di una composizione ritmica, ritornante su se stessa, misteriosa nella propria ripetitività ma consolatoria e rassicurante nella fulgida geometria.
E’ per questa strada che Scirpa, arrivato alla fase delle composizioni illuminate al neon, cioè costituite da elementi percorsi totalmente, o con studiate pause, da fredde luci colorate, si è inoltrato con energica originalità, con sperimentale passione e con vertiginosa inventiva nella ricerca di modulazioni – e moduli – dove l’ordine simmetrico appaia di per sé turbinoso e inconoscibile, le forme, quanto più regolari tanto più insondabili; e dove una sorta di trompe l‘ oeil, ma tutt’altro che mimetico del vero, bensì capace di condurre verso sconosciuti abissi, ci consente di affacciare lo sguardo sull’ermetico punto d’incontro tra il pensiero e il reale, sull’inganno della verità.
Nell’ultima produzione Scirpa ha lavorato soprattutto con la fotografia, sia inserendo le sue strutture a soffietto (il soffietto della macchina fotografica è diventato poco a poco la sua misura e il suo emblema) entro grandi vedute urbane; sia direttamente misurandole, come ipotesi interpretativa della realtà, con le grandi soluzioni prospettiche del passato, sia infine rifotografando da vari punti di vista oggetti e situazioni che ogni volta hanno in tal modo moltiplicato la propria identità.
Il tema sembra essere, ancora e sempre, quello dell’apparenza, specie negli incastri di strutture dimensionalmente assai diverse: si veda l’incombere nella Galleria di Milano, o il proiettarsi in Piazza San Marco di Venezia, del tipico vortice ad imbuto che conosciamo in varie realizzazioni di Scirpa e che siamo abituati a valutare in un suo preciso ingombro spaziale. Ma il discorso non è questo, a mio vedere: poiché tutto è apparenza, e tanto più lo sa l’artista abituato a manovrare gli effetti ottici, le suggestioni prospettiche e così via, l’operazione è quella che conferisce all’apparenza la dignità di rivelazione, all’espediente suggestivo la forza di semplificare le forme e ricondurle al loro nocciolo mentale; di stabilire insomma la comune matrice dell’informe e del formato, che l’artista evoca dal profondo di leggi immutabili. Così, il Ponte dei Sospiri si trasforma nell’imboccatura del soffietto prospettico, l’anima del Colosseo è un lucido invaso di cerchi concentrici, l’aspra e rocciosa apertura della grotta della cosiddetta tomba di Archimede lascia affiorare la quadrata logica del suo contorno.
L’artista avrebbe dunque identificato questa legge geometrica che testimonia e sintetizza l’ordine segreto delle cose, la corrispondenza tra natura e architettura, i segreti passaggi da una struttura all’altra attraverso profondi canali che sembrano collegarsi nelle viscere della realtà: capace non di ridurre la realtà, ma di mostrarcela nella sua nitida semplificata filigrana. E tuttavia non è così: giacché ogni volta le strutture di Scirpa, proprio nel loro prospettarsi in forme convergenti al centro, conducono lo sguardo verso l’imperscrutabilità della voragine che esse inquadrano; la regola come tale non è rassicurante, anzi, quanto più è rigorosa, tanto più ci ricorda che al di sotto, al di dentro, nel cuore delle immagini dove si conduce la nostra vita e si compie la nostra esperienza storica, il buio si sprofonda come una illimitata burella dantesca.
Così lo sperimentatore intellettuale, l’artista di formazione “programmata”, denuncia il suo ruolo di profeta del mistero.
Milano, 1 luglio, 1986